La “colpa” del sopravvissuto

Già Primo Levi nel suo “Se questo è un uomo” evidenziava come il peggior portato delle violenze subite durante la deportazione nei lager non fosse stato tanto l’indescrivibile sofferenza fisica, quanto quella psicologica: l’essere stato privato della propria dignità, l’essere stato umiliato, l’essersi quasi dimenticato della propria casa, dei propri affetti, in nome della sopravvivenza...


al shabab

 

”Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo....Che non conosce pace...Che muore per un sì o per un no...Considerate se questa è una donna....senza nome...
Senza più forza di ricordare...”

Queste le parole di chi non riuscì a sopravvivere alla propria sofferenza, per il senso di colpa che l’accompagnò per tutti gli anni che gli restarono da vivere.

Come può un innocente, una vittima, sentirsi in colpa? Perchè accade?

Consideriamo innanzitutto che i carnefici si presentano sempre come i giusti, coloro che ristabiliscono una morale, coloro che ripristinano la giustizia. La vittima impotente viene colpevolizzata, ridicolizzata nelle sue “buone” intenzioni. La vittima non ha possibilità di sottrarsi, di confrontarsi con altri e ciò non per giorni, ma mesi e mesi...é inevitabile allora che debba non solo sopravvivere, ma che la sua sopravvivenza sia legata ad una nuova identità. E’ inevitabile che in quei mesi confronti la propria esistenza, le proprie fortune con quelle della gente tra la quale ha vissuto, per la quale si è spesa e se da ciò ne consegue un bilancio a lei favorevole subentri un senso di colpa. E’ il senso di equità che ci pone di fronte ad una domanda alla quale non c’è risposta:” Perchè loro sì ed io no?”

Se avessimo presente ciò che significa essere uomini, essere donne in talune circostanze, quanto costi, avremmo più rispetto e affetto per le vittime innocenti. 

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